Fiabe di Andersen

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view post Posted on 20/1/2013, 21:29
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Celeste

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Il baule volante

C'era una volta un commerciante, così ricco che avrebbe potuto ricoprire tutta la strada principale e anche un vicolino laterale di monete d'argento, ma naturalmente non lo fece: sapeva come usare il suo denaro; se dava uno scellino, otteneva un tallero; era proprio un commerciante e come tale morì.
Il figlio ereditò tutti i suoi soldi e visse spensierato, andava alle feste ogni notte, costruiva aquiloni con le banconote e lanciava monete d'oro sul lago per farle rimbalzare invece di usare le pietre, perché naturalmente i soldi saltavano meglio; alla fine non gli restarono che quattro scellini, non aveva vestiti al di fuori di un paio di pantofole e una vecchia vestaglia. Ai suoi amici non importò più nulla di lui, dato che non potevano più uscire insieme per le strade; solo uno di loro, che era buono, gli mandò un vecchio baule e gli disse: «Fai i bagagli!». Facile a dirsi! ma egli non aveva nulla con cui fare i bagagli, così si mise lui stesso nel baule.
Era un baule strano. Non appena si premeva la serratura, il baule si sollevava e volava; e infatti si mise a volare attraverso il camino in alto sopra le nuvole, sempre più lontano. Il fondo scricchiolava, e lui temeva che si rompesse, in quel caso avrebbe proprio fatto un bel volo! Il Signore ci protegga! e così arrivò nella terra dei turchi. Nascose il baule nel bosco sotto le foglie secche e se ne andò in città; lì lo poteva fare, perché in Turchia andavano in giro tutti, come lui, con la vestaglia e le pantofole. Così incontrò una balia con un bambinetto. «Ascolta, balia turca!» disse «che cos'è quel grande castello vicino alla città, che ha le finestre così alte?»
«Ci vive la figlia del re!» fu la risposta «è stato predetto che diventerà molto infelice a causa di un fidanzato, e per questo nessuno può andare da lei, se non ci sono anche il re e la regina.»
«Grazie!» rispose il figlio del commerciante, e così se ne tornò nel bosco, si mise nel baule, volò sul tetto e poi entrò dalla finestra fino alla principessa.
La principessa era sdraiata sul divano e dormiva, era così graziosa che il figlio del commerciante dovette baciarla; ;lei si svegliò e si spaventò molto, ma lui raccontò di essere il dio dei turchi e di essere sceso dall'aria fino a lei, e lei ne fu molto contenta.
Così sedettero uno vicino all'altra, lui le narrò fiabe sui suoi occhi: erano laghi bellissimi e scuri, e i pensieri vi nuotavano come sirene; e poi raccontò della fronte, che era una montagna di neve con meravigliose sale e quadri, e poi le narrò della cicogna che porta i cari bambini.
Erano delle storie bellissime! Allora le chiese di sposarlo e lei subito accettò.
«Ma dovete tornare qui sabato» aggiunse «quando ci saranno da me il re e la regina a prendere il tè. Saranno molto orgogliosi all'idea che io sposerò il dio dei turchi, ma dovete raccontare una bellissima storia, perché a loro piacciono tanto mia mamma vuole che siano classiche e morali, mio padre invece le preferisce divertenti, che facciano ridere.»
«Sì, non porterò altro in dono alla sposa che una storia!» rispose il ragazzo, e poi si separarono, ma prima la principessa gli donò una sciabola intarsiata di monete d'oro, che gli fecero proprio comodo.
Volò via, acquistò una nuova vestaglia e sedette nel bosco, pensando a una storia; doveva essere pronta per sabato, e non era facile.
Alla fine la storia fu pronta, e era proprio sabato.
Il re e la regina e tutta la corte lo aspettavano bevendo il tè presso la principessa. Come venne ricevuto bene!
«Volete raccontarci una storia?» chiese la regina «ma che sia significativa e istruttiva!»
«Ma che faccia anche ridere!» aggiunse il re.
«Certamente» rispose lui, e cominciò a raccontare. Ascoltiamola anche noi adesso.
«C'era una volta un mazzetto di fiammiferi, che erano molto fieri di appartenere a una nobile famiglia, il loro albero di origine, il grande pino, di cui erano solo un piccolissimo rametto, era stato un antico e maestoso albero del bosco. Ora i fiammiferi si trovavano su una mensola tra un acciarino e una vecchia pentola di ferro, e per loro si misero a raccontare della loro infanzia. "Al tempo dei nostri anni più verdi", dicevano "ci trovavamo proprio su un albero verde! Ogni mattina e ogni sera avevamo del tè di diamanti, che era la rugiada, e durante il giorno avevamo i raggi del sole, quando il sole splendeva, e tutti gli uccellini ci raccontavano delle storie. Sapevamo di essere anche ricchi, perché gli altri alberi erano vestiti solo d'estate, mentre la nostra famiglia poteva permettersi vestiti verdi sia d'estate che d'inverno. Poi giunsero dei boscaioli che fecero una gran rivoluzione, e la nostra famiglia venne dispersa. Il tronco principale diventò un albero maestoso in una nave bellissima che poteva navigare intorno al mondo, se lo voleva, gli altri rami andarono in luoghi diversi, e noi abbiamo avuto l'incarico di accendere la luce per la gente vile; per questo noi, che siamo gente aristocratica, siamo arrivati fin qui in cucina."
«"A me invece è capitato in un altro modo" disse la pentola di ferro vicino alla quale si trovavano i fiammiferi. "Da quando sono nata sono stata bollita e raschiata moltissime volte! Devo occuparmi di cose concrete e, a dire il vero, sono io la più importante della casa. La mia unica gioia è, dopo il pranzo, stare qui sulla mensola ben pulita a chiacchierare con i compagni; ma noi viviamo sempre in casa, a parte il secchio dell'acqua che ogni tanto è portato nel cortile. Il nostro unico informatore è la borsa della spesa, ma quella si agita sempre nel parlare del governo e del popolo; addirittura l'altro giorno c'era una vecchia pentola che per lo spavento è caduta e s'è rotta! Quella è una liberale, ve lo dico io!"
«"Tu parli troppo" esclamò l'acciarino e batté sulla pietra focaia per far scintille. "Perché non ci divertiamo questa sera?"
«"Sì, vediamo chi di noi è più distinto!" suggerirono i fiammiferi.
«"No, a me non piace parlare di me stessa!" disse la pentola di coccio. "Organizziamo invece una vera serata! Comincio io: vi racconto una storia che noi tutti abbiamo vissuto; così è facile immedesimarvisi, e poi è divertente. Presso i faggi danesi che si trovano lungo il Mar Baltico..."
«"È un inizio bellissimo!" esclamarono tutti i piatti "sarà sicuramente una bella storia".
«"Sì. Là trascorsi la mia giovinezza, presso una famiglia tranquilla. I mobili venivano lucidati, il pavimento veniva lavato e cambiavano le tendine ogni quindici giorni."
«"Com'è interessante quello che raccontate!" disse il piumino per spolverare. "Si sente subito che è una signora quella che racconta! c'è un'aria così pulita nelle sue parole!"
«"Sì, è vero!" disse il secchio dell'acqua, e saltellò di gioia così che l'acqua schizzò sul pavimento.
«E la pentola continuò a raccontare e la fine fu bella come l'inizio.
«Tutti i piatti tintinnavano per la gioia, il piumino prese del prezzemolo dal secchio di sabbia e incoronò la pentola, perché sapeva che avrebbe fatto rabbia agli altri, e "se io la incorono oggi" pensava "domani mi incoronerà lei".
«"Adesso vogliamo ballare!" esclamarono le molle del camino e ballarono. Dio mio! come sollevavano le gambe! La vecchia fodera della sedia nell'angolo rideva a crepapelle nel vederle! "Possiamo essere incoronate anche noi?" chiesero le molle e lo furono.
«"Non è altro che popolino!" pensavano i fiammiferi.
«Adesso doveva cantare la teiera, ma era raffreddata, o almeno così disse, non poteva cantare se non bolliva, ma non era che mania di grandezza: voleva cantare solo quando si trovava a tavola con gli invitati.
«Vicino alla finestra c'era una vecchia penna d'oca, con cui la domestica scriveva; non aveva nulla di strano, eccetto che era stata immersa troppo nel calamaio, ma di questo era orgogliosa. "La teiera non vuole cantare?" esclamò "non fa niente, qui fuori c'è una gabbia con un usignolo, che sa cantare; lei invece non ha mai imparato, ma non parliamo male di lei questa sera!"
«"Io penso che sia molto sconveniente" disse il bollitore, che era il cantante della cucina e il fratellastro della teiera "dover sentire un uccello estraneo. Vi pare patriottico? Lasciamo giudicare dalla borsa della spesa."
«"Sono proprio arrabbiata!" disse la borsa "così arrabbiata che non potete immaginare! è forse un bel modo di trascorrere la serata? non è meglio mettere un po' in ordine la casa? Ognuno dovrebbe tornare al suo posto e io dirigerei il tutto sarebbe diverso!"
«"Sì, facciamo un po' di ordine!" dissero tutti. In quel mentre si aprì la porta. Era la domestica, e tutti rimasero quieti, nessuno fiatò; ma non c'era una sola pentola che non fosse conscia di quello che avrebbe potuto fare e non se ne sentisse orgogliosa. "Sì, se avessi voluto" pensavano "sarebbe stata una serata divertente!"
«La domestica prese i fiammiferi e accese il fuoco. Dio mio! come crepitavano e che fiamma!
«"Adesso ognuno può vedere che noi siamo i più importanti!" pensavano i fiammiferi "e che splendore, che luce abbiamo!" e già erano tutti consumati.»
«Che bella storia» esclamò la regina «mi sono proprio sentita in cucina con i fiammiferi. Sì, tu avrai nostra figlia.»
«Certo!» aggiunse il re. «Sposerai nostra figlia lunedì.» Ormai gli dava del tu, dato che doveva far parte della famiglia.
Il matrimonio era stato fissato e la sera prima la città venne tutta illuminata: volavano in aria ciambelline e maritozzi; i monelli di strada si alzavano in punta di piedi per prenderle e urlavano Urrà! e fischiavano con le dita; era semplicemente meraviglioso!
"Anch'io devo fare qualcosa!" pensò il figlio del commerciante, e comprò dei razzi illuminanti, dei petardi e tutti i fuochi artificiali che si potessero immaginare, li mise nel baule e volò in alto.
Rutsch! come funzionavano bene! e che scoppi!
Tutti i turchi saltavano in aria a ogni scoppio e le pantofole gli arrivavano fino alle orecchie: un tale spettacolo non l'avevano mai visto prima. Adesso capivano che era proprio il dio dei turchi che doveva sposare la principessa.
Quando il figlio del commerciante ridiscese col suo baule nel bosco pensò: "Voglio andare in città a sentire che cosa dicono di me!", e era naturale che avesse voglia di farlo.
Quali cose raccontava la gente! ognuno di quelli a cui domandava l'aveva visto in modo differente, ma a tutti era parso straordinario.
«Io ho visto il dio dei turchi in persona!» raccontò uno. «Aveva occhi che splendevano come stelle e una barba come l'acqua spumeggiante!»
«Volava avvolto in un mantello di fuoco» diceva un altro.
«Bellissimi angioletti spuntavano dalle pieghe.»
Sì, sentì dire delle cose bellissime e il giorno dopo doveva esserci il matrimonio.
Tornò nel bosco per infilarsi nel baule, ma dov'era finito? Il baule era tutto bruciato. Una scintilla dei fuochi artificiali vi era caduta sopra, aveva appiccato il fuoco, e ora il baule era diventato cenere. Lui non era più in grado di volare, non poteva più raggiungere la sua sposa.
Lei rimase tutto il giorno sul tetto a aspettare; sta aspettando ancora mentre lui gira per il mondo e racconta storie, che però non sono divertenti come quella che aveva raccontato sui fiammiferi.

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La diligenza a dodici posti

La notte era gelida e limpidissima: il cielo brillava di stelle. L'orologio della chiesa scoccò dodici rintocchi, e subito i mortaretti incominciarono a scoppiettare e una vecchia latta volò fuori da una finestra, perché era l'ultima notte dell'anno. In quel preciso momento, una vecchia diligenza sconquassata venne a fermarsi alla porta della città; portava dodici viaggiatori, quanti erano i posti.
I nuovi arrivati scesero dalla diligenza. Tutti erano forniti di passaporto e di bagaglio e portavano persino dei doni per me, per voi, per tutti.
- Buon anno! - augurò la sentinella. - avanti il primo: dichiarate nome e professione.
Il primo viaggiatore era tutto avvolto in una pelliccia d'orso e calzava stivaloni di pelo.
- Potete consultare il mio passaporto-disse - io sono colui a cui tutti guardano sempre con speranza. Distribuisco mance e regali, e ne darò uno anche a voi, se verrete a trovarmi domani. Faccio inviti e feste di ballo, ma non posso darne più di trentina. Le mie navi sono imprigionate in mezzo ai ghiacci, ma nella mia casa fa caldo. Mi chiamo Gennaro.
- Avanti il secondo - disse allora la sentinella.
Questi era un personaggio gioviale e pazzerellone: organizzava balli e divertimenti di ogni genere. Portava seco un grosso barile.
- Quando c'è questo, c'è baldoria - dichiarò. - Voglio stare allegro, perché ho poco tempo da vivere: ventotto giorni soltanto. Ogni tanto mi aggiungono un altro giorno per la buona misura, ma non ne faccio gran calcolo. - Poco chiasso! - ammonì la sentinella.
- Io posso fare tutto il chiasso che voglio - replicò l'altro. - Sono il Principe Carnevale, ma viaggio in incognito sotto il nome Febbraio.
Il terzo viaggiatore era magro come la quaresima. Studiava il cielo camminando col naso in aria, perché predicava il tempo e le stagioni. Al risvolto della giacca portava un mazzolino di violette piccine, piccine. Il quarto viaggiatore gli batté la mano sulla spalla.

- Don Marzo, - esclamò sento odor di punch! Nella saletta dei doganieri stanno preparando la tua bevanda preferita. Corri subito a vedere!
Non era vero: il nuovo venuto voleva soltanto giocare un tiro al suo compagno di viaggio; infatti si chiamava Aprile e incominciava la sua carriera con un pesce. Aveva un aspetto gaio, forse perché lavorava poco.
Dopo di lui scese una bella fanciulla che si chiamava Maggiolina. Indossava un vestito color dell'erba tenera. Aveva nei capelli un mazzolino di anemoni e profumava di tino. Quel profumo era tanto forte che la sentinella starnutì.
- Dio vi benedica! - disse la fanciulla.
- Fate largo che scende la dama di Giugno - avvertì il cocchiere.
La signora scese. Era una dama molto bella e un poco altera. L'accompagnava Luglio, suo fratello minore. Questi era un giovane grassoccio, indossava abiti estivi e portava sulla testa un largo cappello di panama.
Un po' affannata e rossa in viso scese poi Mamma Agostina. Era una venditrice di frutta, proprietaria di molti terreni, sempre in faccende.

Dalla diligenza, dopo di lei, sbucò un pittore: il professor Settembre. Aveva per sbaglio i tubetti del colore, perché il colore era la sua passione. Infatti appena entrava nelle foreste, gli alberi e le foglie sfoggiavano la più variopinta magnificenza; qua rosso acceso, là giallo, più in là bruno dorato.
Comparve poi un gentiluomo di campagna, il Conte Ottobre. Amatissimo della caccia, portava con sé il fucile, il cane e il carniere pieno di noci.
Novembre, il suo compagno, era tormentato da una violenta infreddatura. Era provveditore dei Focolari e doveva pensare alle provviste di legna, spaccarla e segarla.
E finalmente ecco l'ultimo viaggiatore: Nonno Dicembre, che stringeva lo scaldino fra le mani. Era freddoloso e intirizzito, e portava in braccio anche un piccolo abete.
- Voglio che cresca tanto da toccare il soffitto, alla sera di Natale - disse, - Così si potrà adornarlo con palle d'argento, candeline colorate e angioletti.
Il doganiere lo interruppe:
- Ogni passaporto è valido per un mese - avvertì. - Io lì ritirerò e, scaduto il tempo consentito, scriverò le note relative alla vostra condotta.
Finito l'anno, cari lettori, credo che anch'io saprò dirvi che cosa i dodici viaggiatori avranno portato in regalo a me, a voi, a tutti, ma per ora davvero non lo so! Forse non lo sanno neanche loro. Si vive in tempi così strani…


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L'usignolo

In Cina, lo sai bene, l'imperatore è un cinese e anche tutti quelli che lo circondano sono cinesi. La storia è di molti anni fa, ma proprio per questo vale la pena di sentirla, prima che venga dimenticata. Il castello dell'imperatore era il più bello del mondo, tutto fatto di finissima porcellana, costosissima ma così fragile e delicata, che, toccandola, bisognava fare molta attenzione. Nel giardino si trovavano i fiori più meravigliosi, e a quelli più belli erano state attaccate campanelline d'argento che suonavano cosicché nessuno passasse di lì senza notare quei fiori. Sì, tutto era molto ben progettato nel giardino dell'imperatore che si estendeva talmente che neppure il giardiniere sapeva dove finisse. Se si continuava a camminare, si arrivava in uno splendido bosco con alberi altissimi e laghetti profondi. Il bosco terminava vicino al mare, azzurro e profondo; grandi navi potevano navigare fin sotto i rami del bosco e tra questi viveva un usignolo, e cantava in modo così meraviglioso che persino il povero pescatore, che aveva tanto da fare, sentendolo cantare si fermava a ascoltarlo, quando di notte era fuori a tendere le reti da pesca. «Oh, Signore, che bello!» diceva, poi doveva stare attento al suo lavoro e dimenticava l'uccello. Ma la notte successiva, quando questo ancora cantava, il pescatore che usciva con la barca, esclamava: «Oh, Signore, che bello!».
Alla città dell'imperatore giungevano stranieri da ogni parte del mondo, per ammirare la città stessa, il castello e il giardino; quando però sentivano l'usignolo, dicevano tutti: «Questa è la meraviglia più grande!».
I viaggiatori poi, una volta tornati a casa, raccontavano tutto, e le persone istruite scrissero molti libri sulla città, sul castello e sul giardino, ma non dimenticarono mai l'usignolo, anzi l'usignolo veniva prima di tutto il resto, e quelli che sapevano scrivere poesie scrissero i versi più belli sull'usignolo del bosco, vicino al mare profondo.
Quei libri girarono per il mondo e alcuni giunsero fino all'imperatore. Seduto sul trono d'oro, leggeva continuamente, facendo ogni momento cenni di assenso con la testa, perché gli piaceva ascoltare le splendide descrizioni della città, del castello e del giardino. "Ma l'usignolo è la cosa più bella" c'era scritto.
«Che cosa?» esclamò l'imperatore. «L'usignolo? Non lo conosco affatto! Esiste un tale uccello nel mio regno, e per di più nel mio giardino! Non l'ho mai saputo! E bisogna leggerlo per saperlo!»
Così chiamò il suo luogotenente che era così distinto che, se qualcuno inferiore a lui osava rivolgergli la parola o chiedergli qualcosa, non diceva altro che: «P...!», il che non significa nulla.
«Qui dovrebbe esserci un uccello meraviglioso chiamato usignolo» spiegò l'imperatore. «Si dice che sia la massima meraviglia del mio grande regno. Perché nessuno me ne ha mai parlato?»
«Non l'ho mai sentito nominare prima d'ora» rispose il luogotenente «non è mai stato introdotto a corte.»
«Voglio che venga qui stasera a cantare per me» concluse l'imperatore. «Tutto il mondo sa che cosa possiedo e io non lo so!»
«Non l'ho mai sentito nominare prima d'ora!» ripetè il luogotenente «farò in modo di trovarlo.»
Ma dove? Il luogotenente corse su e giù per le scale e attraversò saloni e corridoi; nessuno di quelli che incontrava aveva mai sentito parlare dell'usignolo, così il luogotenente tornò di corsa dall'imperatore e gli disse che doveva essere un'invenzione di chi aveva scritto i libri.
«Sua Maestà Imperiale non deve credere a quello che si scrive! È certamente un'invenzione fatta con quella che si chiama magia nera.»
«Ma quel libro in cui l'ho letto» disse l'imperatore «mi è stato inviato dal potente imperatore del Giappone, quindi non può essere falso. Voglio sentire quell'usignolo! Dev'essere qui stasera! Sarà ammesso nelle mie grazie! Se invece non viene, tutta la corte sarà picchiata sulla pancia dopo cena!»
«Tsing-pe!» rispose il luogotenente e ricominciò a correre su e giù per le scale, e attraverso saloni e corridoi, e metà della corte correva con lui, dato che non volevano essere picchiati sulla pancia. Si sentiva chiedere soltanto dello straordinario usignolo che tutto il mondo conosceva eccetto quelli della corte.
Alla fine trovarono una povera fanciulla in cucina che disse: «O Dio! L'usignolo: lo conosco, e come canta bene. Ogni sera ho il permesso di portare un po' degli avanzi a casa, alla mia povera mamma malata che vive giù vicino alla spiaggia, e quando al ritorno, stanca, mi fermo a riposare nel bosco, sento cantare l'usignolo. Mi vengono le lacrime agli occhi, è come se la mia mamma mi baciasse!».
«Povera sguattera» esclamò il luogotenente «ti darò un posto fisso in cucina e ti permetterò di assistere al pranzo dell'imperatore se ci porterai dall'usignolo, dato che è stato convocato per questa sera.»
Così tutti si diressero nel bosco, dove di solito cantava l'usignolo; c'era mezza corte. Sul più bello una mucca cominciò a muggire.
«Oh!» dissero i gentiluomini di corte «eccolo! C'è una forza straordinaria in un animale così piccolo; certo l'ho sentito prima!»
«No! Sono le mucche che muggiscono» spiegò la piccola sguattera «siamo ancora lontani.»
Allora le rane gracidarono nello stagno.
«Bello!» disse il cappellano di corte cinese «ora lo sento, sembrano tante piccole campane!»
«No! Sono le rane» esclamò la fanciulla. «Sentite, sentite! Eccolo lì» e indicò un piccolo uccello grigio trai rami.
«È possibile?» disse il luogotenente «non me lo sarei mai immaginato così. Come è modesto! Ha certamente perso i suoi colori nel vedersi intorno tanta gente distinta.»
«Piccolo usignolo!» gridò la fanciulla a voce alta «il nostro clemente imperatore desidera che tu canti per lui!»
«Volentieri!» rispose l'usignolo, e cantò che era un piacere sentirlo .
«È come se fossero campane di vetro!» commentò il luogotenente. «E guardate quella piccola gola, come si sforza! È stranissimo che non l'abbiamo mai sentito prima! Avrà sicuramente successo a corte.»
«Devo cantare ancora una volta per l'imperatore?» chiese l'usignolo, convinto che l'imperatore fosse presente.
«Mio eccellente usignolo!» disse il luogotenente «ho il grande piacere di invitarla a una festa a corte, questa sera, dove lei incanterà la Nostra Altezza Imperiale con il suo affascinante canto!»
«È meglio tra il verde!» rispose l'usignolo, ma li seguì ugualmente volentieri quando seppe che l'imperatore lo desiderava.
Al castello avevano fatto grandi preparativi. Le pareti e i pavimenti, che erano di porcellana, brillavano, illuminati da migliaia di lampade d'oro; i fiori più belli, quelli che tintinnavano, erano stati messi lungo i corridoi; c'era un correre continuo e una forte corrente d'aria, e così tutte le campanelline si misero a suonare e non fu più possibile capire niente.
In mezzo al grande salone dove stava l'imperatore era stato collocato un trespolo d'oro, su cui l'usignolo doveva posarsi c'era tutta la corte, e la piccola sguattera aveva avuto il permesso di stare dietro alla porta, dato che era stata insignita del titolo di "sguattera imperiale".
Tutti indossavano i loro abiti migliori e tutti guardarono quel piccolo uccello grigio che l'imperatore salutò con un cenno.
L'usignolo cantò così deliziosamente che l'imperatore si commosse, le lacrime gli corsero lungo le guance, allora l'usignolo cantò ancora meglio e gli andò dritto al cuore. L'imperatore era così soddisfatto che diede ordine che l'usignolo portasse intorno al collo la sua pantofola d'oro. L'usignolo ringraziò ma disse che aveva già avuto la sua ricompensa.
«Ho visto le lacrime negli occhi dell'imperatore, questo è il tesoro più prezioso per me. Le lacrime di un imperatore hanno una potenza straordinaria. Dio sa che sono già stato ricompensato!» E cantò di nuovo con la sua dolcissima voce.
«È la più amabile civetteria che io conosca!» dissero le dame di corte e si misero dell'acqua in bocca per fare glug, quando qualcuno avesse rivolto loro la parola, così credevano di essere anche loro degli usignoli. Anche i lacchè e le cameriere cominciarono a essere soddisfatti, e questa non è cosa da poco perché sono le persone più diffìcili da soddisfare. Sì, l'usignolo portò davvero la gioia!
Ora sarebbe rimasto a corte, in una gabbia tutta d'oro e con la possibilità di passeggiare due volte di giorno e una volta di notte. Ebbe a disposizione dodici servitori e tutti avevano un nastro di seta con cui lo tenevano stretto, dato che i nastri erano legati alla sua zampina. Non era certo un divertimento fare quelle passeggiate!
Tutta la città parlava di quel meraviglioso uccello, e quando due persone si incontravano uno non diceva altro che: «Usi» e l'altro rispondeva: «Gnolo!» e poi sospiravano comprendendosi reciprocamente; undici figli di droghieri ricevettero il nome di quell'uccello, ma non uno di essi ebbe il dono di cantare bene.
Un giorno arrivò un grande pacco per l'imperatore, con scritto sopra: "Usignolo".
«È sicuramente un nuovo libro sul famoso uccello!» esclamò l'imperatore; ma non era un libro, era invece un piccolo oggetto chiuso in una scatola: un usignolo meccanico, che doveva somigliare a quello vivo ma era ricoperto completamente di diamanti, rubini e zaffiri. Non appena lo si caricava, cominciava a cantare uno dei brani che anche quello vero cantava, e intanto muoveva la coda e brillava d'oro e d'argento. Intorno al collo aveva un piccolo nastro su cui era scritto: "L'usignolo dell'imperatore del Giappone è misero in confronto a quello dell'imperatore della Cina".
«Che bello!» dissero tutti, e colui che aveva portato quell'usignolo meccanico ebbe il titolo di Portatore imperiale di usignoli.
«Ora devono cantare insieme! Chissà che duetto!»
Cantarono insieme, ma non andò molto bene, perché il vero usignolo cantava a modo suo, quello meccanico invece funzionava per mezzo di cilindri. «Non è colpa sua!» spiegò il maestro di musica «tiene bene il tempo e segue in tutto la mia scuola!» Così l'usignolo meccanico dovette cantare da solo. Ebbe lo stesso successo di quello vero, ma era molto più bello da guardare: brillava come i braccialetti e le spille.
Cantò per trentatré volte sempre lo stesso pezzo e non era affatto stanco; la gente lo avrebbe ascoltato volentieri di nuovo, ma l'imperatore pensò che ora avrebbe dovuto cantare un po' l'usignolo vero... ma dov'era finito? Nessuno aveva notato che era volato dalla finestra aperta, verso il suo verde bosco.
«Guarda un po'!» esclamò l'imperatore; e tutta la corte si lamentò e dichiarò che l'usignolo era un animale molto ingrato. «Ma abbiamo l'uccello migliore!» dissero, e così l'uccello meccanico dovette cantare ancora e per la trentaquattresima volta sentirono la stessa melodia, ma non la conoscevano ancora completamente, perché era molto difficile, il maestro di musica lodò immensamente l'uccello e assicurò che era migliore di quello vero, non solo per il suo abbigliamento e i bellissimi diamanti, ma anche internamente.
«Perché, vedete, Signore e Signori, e prima di tutti Vostra Maestà Imperiale, con l'usignolo vero non si può mai prevedere quale sarà il suo canto; in questo uccello meccanico invece tutto è stabilito. Così è e non cambia! Ci si può rendere conto di come è fatto, lo si può aprire e si può capire come sono collocati i cilindri, come funzionano e come si muovono, uno dopo l'altro.»
«È proprio quello che penso anch'io!» esclamarono tutti, e il maestro di musica ottenne il permesso, la domenica successiva, di mostrare l'uccello al popolo. «Anche loro devono sentirlo cantare» disse l'imperatore, e così lo sentirono e si divertirono tantissimo, come si fossero ubriacati di tè, il che è una cosa prettamente cinese. Tutti esclamarono: "Oh!" e alzarono in aria il dito indice, che chiamano "leccapentole", e assentirono col capo. Ma i poveri pescatori che avevano sentito l'usignolo vero, dissero: «Canta bene, e assomiglia all'altro, ma manca qualcosa, anche se non so che cosa!».
Il vero usignolo venne bandito da tutto l'impero.
L'uccello meccanico fu posto su un cuscino di seta vicino al letto dell'imperatore; tutti i regali che aveva ricevuto, oro e pietre preziose, gli furono messi intorno, e gli fu dato il titolo di "Cantore imperiale da comodino"; nel protocollo fu messo al primo posto a sinistra, perché l'imperatore considerava quel lato più nobile, essendo il lato del cuore: e anche il cuore di un imperatore infatti sta a sinistra. Il maestro di musica scrisse venticinque volumi sull'uccello meccanico, molto eruditi e lunghi e espressi con le parole cinesi più diffìcili, che tutti dissero di aver letto e capito, perché altrimenti sarebbero parsi sciocchi e sarebbero stati picchiati sulla pancia.
Passò così un anno intero; l'imperatore, la corte e tutti gli altri cinesi conoscevano ogni minimo suono della canzone dell'uccello meccanico, e proprio per questo pensavano che fosse così bella: infatti potevano cantarla anche loro, insieme all'uccello, e così facevano. I ragazzi di strada cantavano: «Zi zi zi! giù giù giù!» e lo stesso cantava l'imperatore. Era proprio bello!
Ma una sera, mentre l'uccello meccanico cantava meglio che poteva, e l'imperatore era a letto a ascoltarlo, si sentì svup!; nell'uccello era saltato qualcosa: trrrr! tutte le ruote girarono, e poi la musica si fermò.
L'imperatore balzò fuori dal letto e chiamò il suo medico, ma a che cosa poteva servire? Allora chiamò l'orologiaio che, dopo molti discorsi e visite, rimise in sesto in qualche modo l'uccello, ma disse che bisognava risparmiarlo il più possibile, perché aveva i congegni consumati e non era possibile metterne di nuovi senza rischiare di rovinare la musica. Fu un grande dolore! Si poteva far suonare l'uccello meccanico solo una volta l'anno, e con fatica, ma il maestro di musica tenne un discorso con parole difficili e disse che tutto era uguale a prima, e difatti tutto fu uguale a prima.
Passarono cinque anni e tutto il paese ebbe un grande dolore perché in fondo tutti amavano il loro imperatore; e lui era malato e non sarebbe vissuto a lungo, si diceva; un nuovo imperatore era già stato scelto e il popolo si riuniva per la strada e chiedeva al luogotenente come stava il loro imperatore.
«P!» diceva lui scuotendo il capo.
L'imperatore stava pallido e gelido nel suo grande e meraviglioso letto. Tutta la corte lo credeva morto e tutti corsero a salutare il nuovo imperatore; i servitori uscirono per parlare dell'avvenimento e le cameriere s'erano trovate in compagnia per il caffè. In tutti i saloni e i corridoi erano stati messi a terra dei drappeggi, affinché non si sentisse camminare nessuno, e per questo motivo c'era silenzio, molto silenzio. Ma l'imperatore non era ancora morto; rigido e pallido stava nel suo bel letto con le lunghe tende di velluto e i pesanti fiocchi dorati. In alto c'era la finestra aperta e la luna illuminava l'imperatore e l'uccello meccanico.
Il povero imperatore non riusciva quasi a respirare, era come se avesse qualcosa sul petto; spalancò gli occhi e vide che la morte sedeva sul suo petto e s'era messa in testa la sua corona d'oro. In una mano teneva la spada d'oro e nell'altra una splendida insegna; tutt'intorno, dalle pieghe delle grandi tende di velluto del letto, comparivano strane teste, alcune orribili, altre molto dolci: erano tutte le azioni buone e cattive dell'imperatore, che lo guardavano, ora che la morte poggiava sul suo cuore.
«Ti ricordi?» sussurrarono una dopo l'altra. «Ti ricordi?» e gli raccontarono tante e tante cose che il sudore gli colava dalla fronte.
«Non l'ho mai saputo!» diceva l'imperatore. «Musica musica, il grande tamburo cinese!» gridava «per non sentire quello che dicono!»
Ma loro continuarono e la morte faceva di sì con la testa a tutto quello che veniva detto.
«Musica! Musica!» gridò l'imperatore. «Tu, piccolo uccello d'oro canta, forza, canta! Ti ho dato oro e oggetti preziosi, ti ho appeso personalmente la mia pantofola d'oro al collo, canta dunque, canta!»
Ma l'uccello stava zitto, non c'era nessuno che lo caricasse e quindi non poteva cantare. La morte invece continuò a guardare l'imperatore con le sue enormi orbite cave, e stava in silenzio, in un silenzio spaventoso.
In quel momento si sentì vicino alla finestra un canto mirabile; era il piccolo usignolo vivo che stava seduto sul ramo lì fuori; aveva sentito delle sofferenze dell'imperatore e era accorso per infondergli col canto consolazione e speranza Mentre lui cantava, quelle immagini diventavano sempre più tenui, il sangue si mise a scorrere con più forza nel debole corpo dell'imperatore, e la morte stessa si mise a ascoltare e disse: «Continua, piccolo usignolo, continua!».
«Solo se mi darai la bella spada d'oro, se mi darai quella ricca insegna, se mi darai la corona dell'imperatore!»
E la morte gli diede ogni cimelio in cambio di una canzone, e l'usignolo continuò a cantare, e cantò del tranquillo cimitero dove crescevano le rose bianche, dove l'albero di sambuco profumava e dove la fresca erbetta veniva innaffiata dalle lacrime dei sopravvissuti; allora la morte sentì nostalgia del suo giardino e volò via, come una fredda nebbia bianca, fuori dalla finestra.
«Grazie, grazie!» disse l'imperatore. «Piccolo uccello celeste, ti riconosco! Ti avevo bandito dal mio regno e ciò nonostante col tuo canto hai allontanato le cattive visioni dal mio letto, e hai scacciato la morte dal mio cuore. Come potrò ricompensarti?»
«Mi hai già ricompensato!» rispose l'usignolo. «Ho avuto le tue lacrime la prima volta che ho cantato per te, non lo dimenticherò mai! Questi sono i gioielli che fanno bene al cuore di chi canta! Ma adesso dormi e torna a essere forte e sano: io canterò per te.»
Cantò di nuovo, e l'imperatore cadde in un dolce sonno, in un sonno tranquillo e ristoratore.
Il sole entrava dalla finestra quando lui si svegliò, guarito e pieno di forza; nessuno dei suoi servitori era ancora tornato perché credevano che fosse morto, ma l'usignolo era ancora lì a cantare.
«Dovrai restare con me per sempre!» disse l'imperatore. «Canterai solo quando ne avrai voglia, e io farò in mille pezzi l'uccello meccanico.»
«Non farlo!» gridò l'usignolo. «Ha fatto tutto il bene che poteva. Conservalo come prima. Io non posso vivere al castello, ma permettimi di venire quando ne ho voglia, allora ogni sera mi poserò su quel ramo vicino alla finestra e canterò per te, perché tu possa essere felice e riflettere un po'. Ti canterò delle persone felici e di quelle che soffrono. Ti canterò del bene e del male intorno a te che ti viene tenuto nascosto. L'uccellino che canta vola ovunque, dal povero pescatore alla casa del contadino, da tutti quelli che sono lontani da te e dalla tua corte. Io amo il tuo cuore più della tua corona, anche se la corona ha qualcosa di sacro intorno a sé. Verrò a cantare per te! Ma mi devi promettere una cosa.»
«Qualunque cosa!» rispose l'imperatore, ritto negli abiti imperiali che aveva indossato da solo, la pesante spada d'oro sul cuore.
«Ti chiedo una sola cosa! Non raccontare a nessuno che hai un uccellino che ti riferisce tutto, così le cose andranno molto meglio!»
E l'usignolo volò via.
I servitori entrarono per vedere il loro imperatore morto; restarono impalati quando l'imperatore disse: «Buongiorno!».

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Il brutto anatroccolo

Era così bello in campagna, era estate! Il grano era bello giallo, l'avena era verde e il fieno era stato ammucchiato nei prati; la cicogna passeggiava sulle sue slanciate zampe rosa e parlava egiziano, perché aveva imparato quella lingua da sua madre. Intorno ai campi e al prati c'erano grandi boschi, e in mezzo al boschi si trovavano laghi profondi; era proprio bello in campagna! Esposto al sole si trovava un vecchio maniero circondato da profondi canali, e tra il muro e l'acqua crescevano grosse foglie di farfaraccio, e erano così alte che i bambini più piccoli potevano stare dritti all'ombra delle più grandi. Quel luogo era selvaggio come un profondo bosco; lì si trovava un'anatra col suo nido. Doveva covare gli anatroccoli, ma ormai era quasi stanca, sia perché ci voleva tanto tempo sia perché non riceveva quasi mai visite. Le altre anatre preferivano nuotare lungo i canali piuttosto che risalire la riva e sedersi sotto una foglia di farfaraccio a chiacchierare con lei.
Finalmente una dopo l'altra, le uova scricchiolarono. «Pip, pip» si sentì, tutti i tuorli delle uova erano diventati vivi e sporgevano fuori la testolina.
«Qua, qua!» disse l'anatra, e subito tutti schiamazzarono a più non posso, guardando da ogni parte sotto le verdi foglie; e la madre lasciò che guardassero, perché il verde fa bene agli occhi.
«Com'è grande il mondo!» esclamarono i piccoli, adesso infatti avevano molto più spazio di quando stavano nell'uovo.
«Credete forse che questo sia tutto il mondo?» chiese la madre. «Si stende molto lontano, oltre il giardino, fino al prato del pastore; ma fin là non sono mai stata. Ci siete tutti, vero?» e intanto si alzò. «No, non siete tutti. L'uovo più grande è ancora qui. Quanto ci vorrà? Ormai sono quasi stufa» e si rimise a covare.
«Allora, come va?» chiese una vecchia anatra giunta a farle visita.
«Ci vuole tanto tempo per quest'unico uovo!» rispose l'anatra che covava. «Non vuole rompersi. Ma dovresti vedere gli altri! Sono i più deliziosi anatroccoli che io abbia mai visto assomigliano tanto al loro padre, quel briccone, che non viene neppure a trovarmi.»
«Fammi vedere l'uovo che non si vuole rompere!» disse la vecchia. «Può essere un uovo di tacchina! Anch'io sono stata ingannata una volta, e ho passato dei guai con i piccoli che avevano una paura incredibile dell'acqua. Non riuscii a farli uscire. Schiamazzai e beccai, ma non servì a nulla. Fammi vedere l'uovo. Sì, è un uovo di tacchina. Lascialo stare e insegna piuttosto a nuotare ai tuoi piccoli.»
«Adesso lo covo ancora un po'; l'ho covato così a lungo che posso farlo ancora un po'!»
«Fai come vuoi!» commentò la vecchia anatra andandosene.
Finalmente quel grosso uovo si ruppe. «Pip, pip» esclamò il piccolo e uscì: era molto grande e brutto. L'anatra lo osservò.
«È un anatroccolo esageratamente grosso!» disse. «Nessuno degli altri è come lui! Purché non sia un piccolo di tacchina! Bene, lo scopriremo presto. Deve entrare in acqua, anche a costo di prenderlo a calci!»
Il giorno dopo era una giornata bellissima; il sole splendeva sulle verdi foglie di farfaraccio. Mamma anatra arrivò con tutta la famiglia al canale. Splash! si buttò in acqua; «qua, qua!» disse, e tutti i piccoli si tuffarono uno dopo l'altro. L'acqua coprì le loro testoline, ma subito tornarono a galla e galleggiarono beatamente; le zampe si muovevano da sole e c'erano proprio tutti, anche il piccolo brutto e grigio nuotava con loro.
«No, non è un tacchino!» esclamò l'anatra «guarda come muove bene le zampe, come si tiene ben dritto! È proprio mio! In fondo è anche carino se lo si guarda bene. Qua, qua! venite con me, vi condurrò nel mondo e vi presenterò agli altri abitanti del pollaio, ma state sempre vicino a me, che nessuno vi calpesti, e fate attenzione al gatto!»
Entrarono nel pollaio. C'era un chiasso terribile, perché due famiglie si contendevano una testa d'anguilla, che alla fine andò al gatto.
«Vedete come va il mondo!» disse la mamma anatra leccandosi il becco, dato che anche lei avrebbe voluto la testa d'anguilla. «Adesso muovete le zampe» aggiunse «provate a salutare e a inchinarvi a quella vecchia anatra. È la più distinta di tutte, è di origine spagnola, per questo è così pesante! Guardate, ha uno straccio rosso intorno a una zampa. È una cosa proprio straordinaria, la massima onorificenza che un'anatra possa ottenere. Significa che non la si vuole abbandonare, e che è rispettata sia dagli animali che dagli uomini. Muovetevi! Non tenete i piedi in dentro! Un anatroccolo ben educato tiene le gambe ben larghe, proprio come il babbo e la mamma. Ecco! Adesso chinate il collo e dite qua!»
E così fecero, ma le altre anatre lì intorno li guardarono e esclamarono: «Guardate! Adesso arriva la processione, come se non fossimo abbastanza, e, mamma mia com'è brutto quell'anatroccolo! Lui non lo vogliamo!» e subito un'anatra gli volò vicino e lo beccò alla nuca.
«Lasciatelo stare» gridò la madre «non ha fatto niente a nessuno!»
«Sì, ma è troppo grosso e strano!» rispose l'anatra che lo aveva beccato «e quindi ne prenderà un bel po'!»
«Che bei piccini ha mamma anatra!» disse la vecchia con lo straccetto intorno alla zampa «sono tutti belli, eccetto uno, che non è venuto bene. Sarebbe bello che lo potesse rifare!»
«Non è possibile, Vostra Grazia!» rispose mamma anatra «non è bello, ma è di animo molto buono e nuota bene come tutti gli altri, anzi un po' meglio. Credo che, crescendo, diventerà più bello e che col tempo sarà meno grosso. È rimasto troppo a lungo nell'uovo, per questo ha un corpo non del tutto normale». E intanto lo grattò col becco sulla nuca e gli lisciò le piume. «Comunque è un maschio» aggiunse «e quindi non è così importante. Credo che avrà molta forza e riuscirà a cavarsela!».
«Gli altri anatroccoli sono graziosi» disse la vecchia. «Fate come se foste a casa vostra e, se trovate una testa d'anguilla, portatemela.»
E così fecero come se fossero a casa loro.
Ma il povero anatroccolo che era uscito per ultimo dall'uovo e che era così brutto venne beccato, spinto e preso in giro, sia dalle anatre che dalle galline: «È troppo grosso!» dicevano tutti, e il tacchino, che era nato con gli speroni e quindi credeva di essere imperatore, si gonfiò come un'imbarcazione a vele spiegate e si precipitò contro di lui, gorgogliando e con la testa tutta rossa. Il povero anatroccolo non sapeva se doveva rimanere o andare via, era molto abbattuto perché era così brutto e tutto il pollaio lo prendeva in giro.
Così passò il primo giorno, e col tempo fu sempre peggio. Il povero anatroccolo veniva cacciato da tutti, persino i suoi fratelli erano cattivi con lui e dicevano sempre: «Se solo il gatto ti prendesse, brutto mostro!» e la madre pensava: "Se tu fossi lontano da qui!". Le anatre lo beccavano, le galline
10 colpivano e la ragazza che portava il mangime alle bestie lo allontanava a calci.
Così volò oltre la siepe; gli uccellini che si trovavano tra i cespugli si alzarono in volo spaventati. "È perché io sono così brutto" pensò l'anatroccolo e chiuse gli occhi, ma continuò a correre. Arrivò così nella grande palude, abitata dalle anatre selvatiche. Lì giacque tutta la notte: era molto stanco e triste.
11 mattino dopo le anatre selvatiche si alzarono e guardarono il loro nuovo compagno. «E tu chi sei?» gli chiesero, e l'anatroccolo si voltò da ogni parte e salutò come meglio potè.
«Sei proprio brutto!» esclamarono le anatre selvatiche «ma a noi non importa nulla, purché tu non ti sposi con qualcuno della nostra famiglia!» Quel poveretto non pensava certo a sposarsi, gli bastava solamente poter stare tra i giunchi e bere un po' di acqua della palude.
Lì rimase due giorni, poi giunsero due oche selvatiche, o meglio, due paperi selvatici, dato che erano maschi. Era passato poco tempo da quando erano usciti dall'uovo e per questo erano molto spavaldi.
«Ascolta, compagno» dissero «tu sei così brutto che ci piaci molto! Vuoi venire con noi e essere uccello di passo? In un'altra palude qui vicino si trovano delle graziose oche selvatiche, tutte signorine, che sanno dire qua! Tu potresti avere fortuna, dato che sei così brutto!»
"Pum, pum!" si sentì in quel momento, entrambe le anatre caddero morte tra i giunchi e l'acqua si arrossò per il sangue. "Pum, pum!» si sentì di nuovo, e tutte le oche selvatiche si sollevarono in schiere. Poi spararono di nuovo. C'era caccia grossa; i cacciatori giravano per la palude, sì, alcuni s'erano arrampicati sui rami degli alberi e si affacciavano sui giunchi. Il fumo grigio si spandeva come una nuvola tra gli alberi neri e rimase a lungo sull'acqua. Nel fango giunsero i cani da caccia plasch, plasch! Canne e giunchi dondolavano da ogni parte. Spaventato, il povero anatroccolo piegò la testa cercando di infilarsela sotto le ali, ma in quello stesso momento si trovò vicino un cane terribilmente grosso, con la lingua che gli pendeva fuori dalla bocca e gli occhi che brillavano orrendamente; avvicinò il muso all'anatroccolo, mostrò i denti aguzzi e plasch! se ne andò senza fargli nulla.
«Dio sia lodato!» sospirò l'anatroccolo «sono così brutto che persino il cane non osa mordermi.»
E rimase tranquillo, mentre i pallini fischiavano tra i giunchi e si sentiva sparare un colpo dopo l'altro.
Solo a giorno inoltrato tornò la quiete, ma il povero giovane ancora non osava rialzarsi; attese ancora molte ore prima di guardarsi intorno, e poi si affrettò a lasciare la palude il più presto possibile. Corse per campi e prati, ma c'era molto vento e faceva fatica a avanzare.
Verso sera raggiunse una povera e piccola casa di contadini, era così misera che lei stessa non sapeva da che parte doveva cadere, e così rimaneva in piedi. Il vento soffiava intorno all'anatroccolo, tanto che lui dovette sedere sulla coda per poter resistere, ma diventava sempre peggio. Allora notò che la porta si era scardinata da un lato e era tutta inclinata, e che lui, attraverso la fessura, poteva infilarsi nella stanza, e così fece.
Qui abitava una vecchia col suo gatto e la gallina; il gatto, che lei chiamava "figliolo", sapeva incurvare la schiena e fare le fusa, e faceva persino scintille se lo si accarezzava contro pelo. La gallina aveva le zampe piccole e basse e per questo era chiamata "coccodè gamba corta", faceva le uova e la donna le voleva bene come a una figlia.
Al mattino si accorsero subito dell'anatroccolo estraneo, e il gatto cominciò a fare le fusa e la gallina a chiocciare.
«Che succede?» chiese la vecchia, e si guardò intorno, ma non ci vedeva bene e così credette che l'anatroccolo fosse una grassa anatra che si era smarrita. «È proprio una bella preda!» disse «ora potrò avere uova di anatra, purché non sia un maschio! Lo metterò alla prova.»
E così l'anatroccolo restò in prova per tre settimane, ma non fece nessun uovo. Il gatto era il padrone di casa e la gallina era la padrona, e sempre dicevano: «Noi e il mondo!» perché credevano di esserne la metà, e naturalmente la metà migliore. L'anatroccolo pensava che si potesse avere anche un'altra opinione, ma questo la gallina non lo sopportava.
«Fai le uova?» chiese la gallina.
«No.»
«Allora te ne vuoi stare zitto!»
E il gatto gli disse: «Sei capace di inarcare la schiena, di fare le fusa e di fare scintille?».
«No!»
«Bene, allora non devi avere più opinioni, quando parlano le persone ragionevoli.»
E l'anatroccolo se ne stava in un angolo, di cattivo umore. Poi cominciò a pensare all'aria fresca e al bel sole. Lo prese una strana voglia di andare nell'acqua, alla fine non potè trattenersi e lo disse alla gallina.
«Cosa ti succede?» gli chiese lei. «Non hai niente da fare, è per questo che ti vengono le fantasie. Fai le uova, o fai le fusa, vedrai che ti passa!»
«Ma è così bello galleggiare sull'acqua!» disse l'anatroccolo «così bello averla sulla testa e tuffarsi giù fino al fondo!»
«Sì, è certo un gran divertimento!» commentò la gallina «tu sei ammattito! Chiedi al gatto, che è il più intelligente che io conosca, se gli piace galleggiare sull'acqua o tuffarsi sotto! Quanto a me, neanche a parlarne! Chiedilo anche alla nostra signora, la vecchia dama! Più intelligente di lei non c'è nessuno nel mondo. Credi che lei abbia voglia di galleggiare o di avere l'acqua sopra la testa?»
«Voi non mi capite!» disse l'anatroccolo.
«Certo, se non ti capiamo noi chi dovrebbe capirti, allora? Non sei certo più intelligente del gatto o della donna, per non parlare di me! Non darti delle arie, piccolo! e ringrazia il tuo creatore per tutto il bene che ti è stato fatto. Non sei forse stato in una stanza calda e non hai una compagnia da cui puoi imparare qualcosa? Ma tu sei strambo, e non è certo divertente vivere con te. A me puoi credere: io faccio il tuo bene se ti dico cose spiacevoli; da questo si riconoscono i veri amici. Cerca piuttosto di fare le uova o di fare le fusa o le scintille!»
«Credo che me ne andrò per il mondo» disse l'anatroccolo.
«Fai come vuoi!» gli rispose la gallina.
E così l'anatroccolo se ne andò. Galleggiava sull'acqua e vi si tuffava, ma era disprezzato da tutti gli animali per la sua bruttezza.
Venne l'autunno. Le foglie del bosco ingiallirono, il vento le afferrò e le fece danzare e su nel cielo sembrava facesse proprio freddo. Le nuvole erano cariche di grandine e di fiocchi di neve, e sulla siepe si trovava un corvo che, ah! ah! si lamentava dal freddo. Vengono i brividi solo a pensarci. Il povero anatroccolo non stava certo bene.
Una sera che il sole tramontava splendidamente, uscì dai cespugli uno stormo di bellissimi e grandi uccelli; l'anatroccolo non ne aveva mai visti di così belli. Erano di un bianco lucente, con lunghi colli flessibili: erano cigni. Mandarono un grido bizzarro, allargarono le loro magnifiche e lunghe ali e volarono via, dalle fredde regioni fino ai paesi più caldi, ai mari aperti! Si alzarono così alti che il brutto anatroccolo sentì una strana nostalgia, si rotolò nell'acqua come una ruota, sollevò il collo verso di loro e emise un grido così acuto e strano, che lui stesso ne ebbe paura. Oh, non riusciva a dimenticare quei bellissimi e fortunati uccelli e quando non li vide più, si tuffò nell'acqua fino sul fondo, e tornato a galla era come fuori di sé. Non sapeva che uccelli fossero e neppure dove si stavano dirigendo, ma ciò nonostante li amava come non aveva mai amato nessun altro. Non li invidiava affatto. Come avrebbe potuto desiderare una simile bellezza! Sarebbe stato contento se solo le anatre lo avessero accettato tra loro. Povero brutto animale!
E l'inverno fu freddo, molto freddo. L'anatroccolo dovette nuotare continuamente per evitare che l'acqua ghiacciasse, ma ogni notte il buco in cui nuotava si faceva sempre più stretto. Ghiacciò, poi la superficie scricchiolò. L'anatroccolo doveva muovere le zampe senza fermarsi, affinché l'acqua non si chiudesse; alla fine si indebolì, si fermò e restò intrappolato nel ghiaccio.
Al mattino presto arrivò un contadino, lo vide e col suo zoccolo ruppe il ghiaccio, poi lo portò a casa da sua moglie. Lì lo fecero rinvenire.
I bambini volevano giocare con lui, ma l'anatroccolo credette che gli volessero fare del male; e per paura cadde nel secchio del latte e lo fece traboccare nella stanza. La donna gridò e agitò le mani, lui allora volò sulla dispensa dove c'era il burro, e poi nel barile della farina, e poi fuori di nuovo! Uh, come si era ridotto! La donna gridava e lo inseguiva con le molle del camino e i bambini si urtavano tra loro cercando di afferrarlo e intanto ridevano e gridavano. Per fortuna la porta era aperta; l'anatroccolo volò fuori tra i cespugli, nella neve caduta, e lì restò, stordito.
Sarebbe troppo straziante raccontare tutte le miserie e i patimenti che dovette sopportare nel duro inverno. Si trovava nella palude tra le canne, quando il sole ricominciò a splendere caldo. Le allodole cantavano, era giunta la bella primavera!
Allora sollevò con un colpo solo le ali, che frusciarono più robuste di prima e che lo sostennero con forza, e prima ancora di accorgersene si trovò in un grande giardino, pieno di meli in fiore, dove i cespugli di lilla profumavano e piegavano i lunghi rami verdi giù fino ai canali serpeggianti. Oh! Che bel posto! e com'era fresca l'aria di primavera! Dalle fitte piante uscirono, proprio davanti a lui, tre bellissimi cigni bianchi; frullarono le piume e galleggiarono dolcemente sull'acqua. L'anatroccolo riconobbe quegli splendidi animali e fu invaso da una strana tristezza.
"Voglio volare da loro, da quegli uccelli reali; mi uccideranno con le loro beccate, perché io, così brutto, oso avvicinarmi a loro. Ma non mi importa! è meglio essere ucciso da loro che essere beccato dalle anatre, beccato dalle galline, preso a calci dalla ragazza che ha cura del pollaio, e soffrire tanto d'inverno!" E volò nell'acqua e nuotò verso quei magnifici cigni questi lo guardarono e si diressero verso di lui frullando le piume. «Uccidetemi!» esclamò il povero animale e abbassò la testa verso la superfìcie dell'acqua in attesa della morte, ma, che cosa vide in quell'acqua chiara? Vide sotto di sé la sua propria immagine: non era più il goffo uccello grigio scuro, brutto e sgraziato, era anche lui un cigno.
Che cosa importa essere nati in un pollaio di anatre, quando si e usciti da un uovo di cigno?
Ora era contento di tutte quelle sofferenze e avversità che aveva patito, si godeva di più la felicità e la bellezza che lo salutavano. E i grandi cigni nuotavano intorno a lui e lo accarezzavano col becco.
Nel giardino giunsero alcuni bambini e gettarono pane e grano nell'acqua; poi il più piccolo gridò: «Ce n'è uno nuovo!». E gli altri bambini esultarono con lui: «Sì, ne è arrivato uno nuovo!». Battevano le mani e saltavano, poi corsero a chiamare il padre e la madre, e gettarono di nuovo pane e dolci in acqua, e tutti dicevano: «Il nuovo è il più bello, così giovane e fiero!». E i vecchi cigni si inchinarono davanti a lui.
Allora si sentì timidissimo e infilò la testa dietro le ali, non sapeva neppure lui cosa avesse! Era troppo felice, ma non era affatto superbo, perché un cuore buono non diventa mai superbo! Ricordava come era stato perseguitato e insultato, e ora sentiva dire che era il più bello di tutti gli uccelli! I lilla piegarono i rami fino all'acqua e il sole splendeva caldo e luminoso. Allora lui frullò le piume, rialzò il collo slanciato e esultò nel cuore: "Tanta felicità non l'avevo mai sognata, quando ero un brutto anatroccolo!."

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Il monte degli elfi


Vispe lucertole correvano tra le fenditure di un vecchio albero e si comprendevano bene tra loro, poiché parlavano tutte la lingua delle lucertole.
«Accidenti! Che brontolio proviene dal vecchio monte degli elfi!» esclamò una lucertola. «Con questo rumore non ho chiuso occhio per ben due notti; era proprio come se avessi avuto il mal di denti, perché anche in quel caso non dormo!»
«Sta succedendo qualcosa là dentro!» aggiunse un'altra lucertola. «Il monte si solleva restando appoggiato su quattro paletti rossi fino al canto del gallo, così si cambia l'aria, e le ragazze degli elfi hanno imparato a battere la cadenza con i ben cadenzati piedi in nuove danze. Sta succedendo qualcosa!»
«È vero! ho parlato con un lombrico che conosco» disse una terza lucertola «era appena arrivato dal monte, dove per molti giorni e notti aveva scavato nella terra. Lì aveva sentito parecchie cose; quel povero animale non ci vede, ma può strisciare e ascoltare. Aspettano ospiti al monte degli elfi, ospiti distinti, ma il lombrico non vuole dire chi aspettano, o forse non lo sa nemmeno! Tutti i fuochi fatui sono stati chiamati per fare una fiaccolata, come la chiamano loro, e come brillano l'oro e l'argento! Ce n'è parecchio nel monte e è stato esposto al chiaro di luna.»
«Chissà chi saranno gli ospiti?» si chiesero le lucertole. «Che cosa stanno preparando? Sentite che rumori! E che ronzio!»
In quel mentre il monte degli elfi si aprì e un'anziana donna degli elfi, senza schiena, ma altrimenti molto ben vestita, ne uscì sgambettando. Era la vecchia governante del re degli elfi, una sua lontana parente, e aveva un cuore di ambra sulla fronte. Le sue gambe si muovevano eleganti, tip, tip! accidenti come sapeva sgambettare! E arrivò fino alla palude dal nottolone.
«Lei è invitato al monte degli elfi per questa notte» gli disse «ma prima ci deve fare un grosso favore, deve preoccuparsi lei degli inviti. Deve pur fare qualche servizio, dato che non ha una casa sua! Verranno ospiti molto distinti, troll molto importanti, e per questo il vecchio re degli elfi vuole essere presente alla festa!»
«Chi bisogna invitare?» chiese il nottolone.
«Ecco, al grande ballo può venire chiunque, persino gli uomini se sanno parlare nel sonno o fare qualcosa che rientra nel nostro genere. Ma per il primo banchetto c'è una rigida selezione, ci saranno solo i più distinti. Ho discusso col re degli elfi perché lo non volevo che venissero gli spettri. Il tritone e le sue figlie devono essere invitati per primi; non amano molto trovarsi all'asciutto, ma avranno certamente almeno una pietra bagnata su cui stare, o addirittura qualcosa di meglio. Così credo che questa volta non diranno di no. Devono anche esserci tutti i vecchi troll di prima classe con la coda, lo spirito del fiume e i folletti, e poi credo che non dovremo dimenticare la scrofa della tomba, il cavallo degli Inferi e l'orrore della cattedrale. È vero che fanno parte del clero e non hanno nulla in comune con la nostra gente, ma d'altro canto è il loro mestiere e poi sono quasi parenti e ci fanno spesso visita!»
«Bra!» esclamò il nottolone e se ne volò via per portare gli inviti.
Le ragazze degli elfi già ballavano sul monte, e ballavano con lunghi scialli tessuti di nebbia e chiaro di luna: erano molto graziose, per chi ama quel genere di bellezza. Al centro del monte c'era una grande sala pulita con molta cura; il pavimento era stato lavato con il chiaro di luna e le pareti erano state lucidate con grasso di strega, così ora brillavano alla luce come petali di tulipani. La cucina era zeppa di rane allo spiedo, pelli di serpi ripiene di dita di bimbi, insalata di semi di fungo, musi umidi di topo, e cicuta; c'era la birra della donna della palude e il vino di salnitro brillante della cantina delle tombe. Tutto era di sostanza; chiodi arrugginiti e frammenti dei vetri della chiesa erano i confetti.
Il vecchio re degli elfi fece lucidare la corona d'oro con il gesso in polvere; era il gesso del primo della classe e era stato diffìcile trovarlo, persino per il re! Nella camera da letto c'erano le tende alzate, fissate con saliva di serpe. C'era proprio un bel baccano!
«Adesso bisogna bruciare i crini di cavallo e le setole di maiale, poi credo di aver terminato il mio compito» esclamò la governante.
«Caro padre» chiese la figlia minore «posso sapere finalmente chi sono gli ospiti di riguardo?»
«Certo!» rispose il re.«Ora te lo dico. Due delle mie figlie devono tenersi pronte a sposarsi: ne darò certo via due in sposa! Il vecchio troll della Norvegia, che abita sull'antica montagna di Dovre e possiede molti castelli di scoglio costruiti su massi enormi e una miniera d'oro che vale più di quanto si creda, viene quaggiù con i suoi due figli, che devono trovar moglie. Il vecchio troll è proprio un vero norvegese, onesto e distinto, allegro e semplice; lo conosco dai tempi in cui brindammo alla nostra amicizia. Era venuto allora a cercar moglie, ora è morta, era la figlia del re della scogliera di IVfeen. S'è preso una moglie di creta, come si usa dire! Oh, che voglia di rivedere il vecchio troll norvegese! Si dice che i figli siano maleducati e presuntuosi, ma può darsi che non sia vero, o che migliorino col tempo. Vediamo se li saprete sistemare voi!»
«Quando arrivano?» chiese una figlia.
«Dipende dal tempo e dal vento» rispose il re degli elfi. «Viaggiano in economia. Verranno con la prima nave che passa. Io volevo che passassero dalla Svezia, ma il vecchio non si fida. Non è al passo coi tempi, e questo non mi piace molto!»
In quel mentre giunsero saltellando due fuochi fatui, ma uno era più veloce e arrivò prima.
«Arrivano! Arrivano!» gridarono.
«Datemi la corona e mettetemi al chiaro di luna!» disse il re degli elfi.
Le figlie sollevarono i lunghi scialli e si chinarono fino a terra.
Apparve il vecchio troll di Dovre, con una corona di getti di ghiaccio indurito e pigne d'abete lucidate, una pelliccia d'orso e un bel paio di stivali; i figli invece erano senza colletto né bretelle perché volevano apparire più moderni.
«Questa sarebbe una montagna?» chiese il più giovane indicando il monte degli elfi. «In Norvegia la chiameremmo una caverna!»
«Giovanotti!» commentò il vecchio «la caverna va in dentro il monte va in fuori. Non avete gli occhi?»
L'unica cosa che li sorprendeva in quel luogo, osservarono era il fatto di capire la lingua senza difficoltà.
«Non datevi arie adesso!» rispose il vecchio «o finirete per sembrare immaturi.»
E entrarono nel monte degli elfi dove si trovava una compagnia molto distinta, che si era riunita in fretta come fosse stato il vento a soffiarla là. Per ognuno era stato apparecchiato con molto buon gusto. La gente di mare sedeva in grandi vasche d'acqua e sosteneva di sentirsi come a casa propria Tutti erano molto ben educati, eccetto i due giovani troll norvegesi, che avevano appoggiato le gambe sul tavolo e credevano di poter fare qualunque cosa.
«Giù le gambe dal tavolo!» gridò il vecchio troll, e i figli gli obbedirono, ma solo dopo qualche tempo. Fecero poi il solletico alla loro vicina di tavolo con delle pigne d'abete che avevano in tasca, e si tolsero gli stivali per sentirsi più comodi dandoli in custodia alle donne. Il padre invece, il vecchio troll era tutta un'altra cosa; raccontava così bene delle fiere montagne della Norvegia, delle cascate che precipitano bianche di schiuma, risuonando come un organo o come un tuono. Raccontava del salmone che risale la corrente, quando l'ondina suona la sua arpa d'oro, delle luminose notti invernali durante le quali le sonagliere risuonano e i ragazzi corrono con le torce accese sul ghiaccio tanto trasparente che i pesci sotto di loro si spaventano. Sì, sapeva proprio raccontare! Tanto che la gente che ascoltava vedeva e sentiva le cose di cui lui parlava: le segherie sembravano funzionare davvero, i ragazzi e le ragazze cantare le canzoni e danzare i balli popolari tipici della valle di Halling. A un tratto il vecchio troll diede un grosso e casto bacio alla governante degli elfi; un bacio molto fraterno, ma bisogna pensare che non sono neppure lontani parenti !
Le ragazze del monte degli elfi cominciarono a danzare, sia nel solito modo che battendo un piede, e questo genere di danza si addiceva molto alle ballerine. Infine ci fu una "danza artistica", in cui ogni ballerino si esibisce in un assolo fuori dalle file. Accidenti! Come sapevano tendere le gambe, non si distingueva più la fine e il principio; non si capiva quali fossero le braccia e quali le gambe, si mescolavano come trucioli di serratura e ruotavano per la stanza tanto che il cavallo degli Inferi stette male e se ne andò fuori.
«Brr!» esclamò il vecchio troll «quante gambe! Ma che cosa sanno fare oltre danzare, tendere le gambe e fare le giravolte?»
«Adesso lo saprai!» rispose il re degli elfi, e chiamò la più giovane delle sue figlie; era così magra, e trasparente come il chiaro di luna, era la più raffinata tra le sorelle; mise in bocca uno stecchino bianco e immediatamente scomparve: questa era la sua specialità.
Il vecchio troll disse di non apprezzare una moglie che sapesse fare quella magia, e lo stesso senza dubbio pensavano i suoi figli.
La seconda sapeva camminare di fianco a se stessa come se avesse avuto l'ombra, cosa che gli spiriti non hanno.
La terza era di un altro genere, aveva imparato alla birreria della donna della palude e sapeva lardellare i tronchi di ontano con le lucciole.
«Questa diventerà un'ottima donna di casa!» commentò il vecchio troll e brindò strizzando l'occhio, dato che non voleva bere troppo.
Poi giunse la quarta figlia con una grande arpa d'oro su cui cominciò a suonare, ma non appena ebbe toccato la prima corda tutti sollevarono la gamba sinistra, dato che gli spiriti sono mancini, e quando vibrò la seconda corda tutti dovettero fare quello che voleva lei.
«Questa è una moglie pericolosa!» disse il vecchio troll, e i suoi due ragazzi uscirono dal monte perché si erano annoiati.
«Cosa sa fare la prossima?» chiese il troll.
«Io ho imparato a amare i norvegesi» esclamò lei «e non mi sposerò se non andrò a abitare in Norvegia!»
Ma la sorella più piccola sussurrò al vecchio troll: «Dice così solo perché ha sentito in una canzone norvegese che, quando il mondo finirà le rocce norvegesi resteranno come monumenti del passato: è per questo che vuole andare lassù, perché ha tanta paura di morire».
«Ah! ah!» rispose il vecchio troll «tranquillizzati! E cosa sa fare la settima e ultima fanciulla?»
«Prima c'è la sesta» gli disse il re degli elfi, che sapeva contare; ma la sesta non volle presentarsi.
«Io so solamente dire la verità alla gente» rispose «di me non importa a nessuno, e sono già abbastanza impegnata a cucirmi la camicia per la bara!»
Poi arrivò la settima e ultima figlia, che cosa sapeva fare? Sapeva raccontare delle storie, tante quante ne voleva.
«Qui vedi le mie cinque dita» le disse il vecchio troll. «Raccontami una storia per ognuno.»
La figlia del re lo afferrò per il polso e lo fece ridere finché gli venne il singhiozzo. Quando poi arrivò all'anulare, che aveva un anello dorato in vita come se già sapesse che ci sarebbe stato un fidanzamento, il vecchio troll esclamò: «Tieni ben stretto ciò che hai, la mano è tua. Io ti voglio prendere in moglie».
La fanciulla rispose che mancavano ancora le storie dell'anulare e del mignolo!
«Le sentiremo quest'inverno» rispose il vecchio troll «e ci racconterai la storia dell'abete, della betulla, dei regali delle ninfee e del gelo che scricchiola! Vedrai quanto dovrai raccontare, perché nessuno lo sa fare bene lassù. Ci siederemo nella nostra stanza di pietra dove arde la legna, berremo l'idromele dai corni d'oro degli antichi re norvegesi, l'ondina me ne ha regalato qualcuno! Mentre saremo là seduti verrà a trovarci il folletto contadino, che canterà tutte le canzoni delle pastorelle di montagna. Sarà molto divertente! Il salmone salterà sulla cascata proprio contro il muro di pietra di casa nostra, ma non riuscirà a entrare! Vedrai come si sta bene nella vecchia e cara Norvegia! Ma dove sono finiti i miei ragazzi?»
Già, dov'erano finiti i due ragazzi? Correvano nei campi e spegnevano tutti i fuochi fatui, che stavano arrivando con calma per fare la fiaccolata.
«C'è bisogno di gironzolare così?» esclamò il vecchio troll «io ho trovato una madre per voi, ora voi potete prendervi una delle zie!»
Ma i ragazzi dissero che avrebbero preferito tenere un discorso o brindare all'amicizia, mentre di sposarsi non avevano alcuna intenzione. Perciò tennero un discorso, brindarono all'amicizia, e rovesciarono il bicchiere per dimostrare che avevano bevuto fino in fondo; poi si tolsero i vestiti e si stesero sul tavolo per dormire, dato che erano un po' sfacciati. Il vecchio troll danzò per la stanza con la sua giovane sposa; poi si scambiarono gli stivali, il che è più fine che scambiarsi gli anelli.
«Ora canta il gallo!» esclamò la vecchia governante, che badava alla casa. «Bisogna chiudere le persiane delle finestre per evitare che il sole ci arrostisca!»
E così il monte si richiuse.
Fuori le lucertole correvano su e giù dall'albero spaccato e una disse all'altra:
«Oh, come mi piace il vecchio troll norvegese!»
«A me piacciono di più i ragazzi!» replicò il lombrico, ma lui non ci vedeva, poveretto!

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La principessa sul pisello


C'era una volta un principe che voleva avere per sé una principessa, ma doveva essere una vera principessa. Perciò viaggiò per tutto il mondo per trovarne una, ma ogni volta c'era qualcosa di strano: di principesse ce n'erano molte, ma non poteva mai essere certo che fossero vere principesse; infatti sempre qualcosa andava storto. Così se ne tornò a casa ed era veramente molto triste, perché desiderava di cuore trovare una vera principessa.

Una sera c'era un tempo pessimo, lampeggiava e tuonava, la pioggia scrosciava, che cosa terribile! Bussarono alla porta della città e il vecchio re andò a aprire. C'era una principessa lì fuori. Ma come era conciata con quella pioggia e quel brutto tempo! L'acqua le scorreva lungo i capelli e gli abiti e le entrava nelle scarpe dalla punta e le usciva dai tacchi; eppure sosteneva di essere una vera principessa. «Adesso lo scopriremo!» pensò la vecchia regina, ma non disse nulla, andò nella camera da letto, tolse tutte le coperte e mise sul fondo del letto un pisello, su cui mise venti materassi e poi venti piumini. Lì doveva passare la notte la principessa. Il mattino successivo le chiesero come avesse dormito. "Oh, terribilmente male" disse la principessa "non ho quasi chiuso occhio tutta la notte. Dio solo sa, che cosa c'era nel letto! Ero sdraiata su qualcosa di duro, e ora sono tutta un livido. È terribile!" Così poterono constatare che era una vera principessa, perché attraverso i venti materassi e i venti piumini aveva sentito il pisello. Nessuno poteva essere così sensibile se non una vera principessa. Il principe la prese in sposa, perché ora sapeva di aver trovato una vera principessa, e il pisello fu messo nella galleria d'arte, dove ancor oggi si può ammirare, se nessuno l'ha preso.

Bada bene, questa è una storia vera!

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L'acciarino magico

Un soldato marciava allegramente verso il suo villaggio: uno, due! Uno, due! Con lo zaino in spalla e la sciabola al fianco, ritornava dalla guerra. Improvvisamente incontrò una strega molto vecchia e brutta.
- Buongiorno, soldato, - gli disse, - hai una bella sciabola, ma il tuo zaino sembra vuoto. Ti piacerebbe possedere molti soldi?
- Si, certo, rispose il soldato.
- Bene, allora scendi nel tronco cavo di questo albero. Prima ti attaccherò una corda intorno alla vita, per farti poi risalire quando me lo domanderai, - continuò la strega.
- Che cosa troverò in questo grosso albero? - domandò il giovane soldato.
- Denaro, soldato, tanto quanto ne vorrai. Quando sarai arrivato sul fondo, vedrai una galleria illuminata da un centinaio di lampade. Sulla sinistra troverai tre porte: ciascuna di esse apre una stanza. Nella prima camera vedrai un cofano sul quale è seduto un cane con due occhi grandi e piatti. Non averne paura, stendi per terra il mio grembiule blu a quadri, afferra poi il cane e mettilo su di esso: come per incanto, resterà immobile. Apri pure il cofano e prendi tutti i soldi di rame che desideri. Se preferisci invece le monete d'argento, entra nella seconda stanza. Anche qui c'è un cofano difeso da un cane con due occhi grandi come le macine di un mulino. Agisci come la prima volta e prendi tutti i soldi d'argento che desideri. Ma se vuoi l'oro, entra nella terza stanza. Anche là troverai un cane con due occhi grandi come la torre rotonda di Copenaghen. Fai come prima e prendi tutte le monete d'oro che desideri.-
- Certo che mi conviene molto, - mormorò il soldato. - E voi cosa desiderate in cambio di queste ricchezze?
- Riportami solamente l'acciarino che mia madre ha dimenticato l'ultima volta che è scesa nell'albero.
- D'accordo. Dammi il tuo grembiule a quadri blu, attacca la corda intorno alla mia vita, poi scenderò subito in fondo all'albero, - disse il giovanotto, risoluto.
Le cose andarono come aveva detto la strega.
Il soldato trovò uno dopo l'altro i tre cani spaventosi con i loro occhi grandi.
Si riempì le tasche di monete di rame, ma le svuotò subito dopo per prendere quelle d'argento ed infine per le monete d'oro di cui si riempì anche gli stivali e lo zaino.
Ora era cosi ricco che avrebbe potuto comperare la città di Copenaghen! trovò l'acciarino, lo prese e chiamò la strega.
- Che cosa vuoi fare di questo acciarino? - le domandò il giovanotto quando fu nuovamente fuori sulla strada.
- Sei troppo curioso, soldato! Accontentati dell'oro che hai!
- Voglio anche l'acciarino! Ridammelo o ti ammazzerò!
La strega si rifiutò con fermezza; il soldato allora l'ammazzò e con passo pesante, perché era molto carico, si diresse verso la città vicina dove alloggiò nel miglior albergo.
Là condusse una bella vita, circondato da cortigiani che lo adulavano.
Un giorno senti parlare dei pregi e della bellezza della principessa, figlia del re di Danimarca.
- Mi piacerebbe molto conoscerla, - sospirò il soldato.
- E' impossibile, - gli fu risposto. - La principessa vive rinchiusa in un castello, circondato da alte mura. Nessuno può avvicinarsi. Il re la sorveglia gelosamente perché un mago gli ha predetto che sposerà un semplice soldato.
Per dimenticare questa delusione il giovane uscì con i suoi amici e sperperò molti soldi; tanto che, un giorno, non gliene rimase nemmeno uno.
Lasciò l'albergo per andare a vivere in una povera mansarda.
I suoi amici gli voltarono le spalle.
Una sera, volendo accendere la sua candela, batté l'acciarino della strega.
Nell'attimo stesso che s'accese la scintilla, apparve uno dei tre cani con gli occhi grandi.
- Ordina, padrone! Io ti servirò, - gli disse, - e i miei compagni sono anch'essi pronti ad ubbidirti.
Il soldato capì che l'acciarino era magico e chiese alcune monete d'oro.
In questo modo ridiventò presto ricco e adulato.
Tuttavia era triste, perché era innamorato segretamente della principessa.
Una notte, ormai disperato, incaricò uno dei cani di portargli la principessa.
Era così bella, profondamente addormentata sul dorso dell'animale, che il soldato le diede un bacio.
Il cane la riportò poi al castello.
Il giorno dopo la principessa raccontò ai genitori sovrani ciò che credeva fosse stato un sogno.
Diffidente, il re la fece seguire dalle sue ancelle per vedere dove andasse di notte.
Il cane, però, riuscì a far perdere le tracce.
Allora la regina fece cucire nei vestiti di sua figlia un taschino pieno d'orzo, forato all'estremità. Così, quando il cane, la notte seguente, portò via la principessa, i semi d'orzo caddero per terra indicando la strada che portava alla casa del soldato.
Il giovanotto fu immediatamente gettato in prigione e condannato all' impiccagione.
Il giorno dell'esecuzione, moltissima gente si era riunita nella piazza.
I sovrani e i giudici troneggiavano dall'alto di un palco.
Due guardie portarono il condannato che, prima di morire, espresse l'ultimo desiderio: quello di fumare un' ultima volta la pipa; ciò gli fu concesso.
Prese dalla tasca l'acciarino magico e lo batté tre volte: i tre cani comparvero, feroci con i loro grandi occhi.
Balzarono sui sovrani e li fecero precipitare dall'alto del palco sulla piazza ove si sfracellarono.
- Viva il piccolo soldato! - urlò la folla che detestava i sovrani tiranni, - viva il nostro re!
Il soldato, divenuto re, sposò la principessa e furono felici per moltissimi anni, ben protetti dai tre cani dai grandi occhi.
- Hans Christian Andersen

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Edited by celeste.10 - 16/12/2018, 12:13
 
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Celeste

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La fanciulla che calpestò il pane

Hai certamente sentito parlare di quella fanciulla che calpestò il pane per non sporcarsi le scarpe, e delle sofferenze che dovette subire. È una storia scritta e stampata.
Era una bambina povera, orgogliosa e superba; c'era in lei un fondo cattivo, come si dice. Da piccolina aveva come divertimento quello di catturare le mosche e di strappar loro le ali riducendole a animaletti striscianti. Prendeva il maggiolino e lo scarabeo, li infilzava con uno spillo e poi metteva una fogliolina verde o un pezzetto di carta tra i loro piedi, così il povero animale vi si afferrava e si rigirava senza posa per cercare di liberarsi dall'ago.
«Adesso il maggiolino legge!» esclamava la piccola Inger «guarda come gira il foglio!»
Crescendo diventò ancora peggio, invece di migliorare; ma era bella e questa fu la sua sfortuna, perché altrimenti sarebbe stata castigata ben diversamente da come in realtà avvenne.
«Bisogna trovare un buon rimedio per questa testa!» diceva la sua stessa madre. «Spesso da bambina mi calpestavi il grembiule, ho paura che da grande mi calpesterai il cuore.»
E così infatti fece.
Andò in campagna a servire in una famiglia molto distinta; la trattavano come se fosse stata una loro figlia, e venne anche rivestita di begli abiti; era graziosa e divenne superba.
Era in campagna da circa un anno quando la sua padrona le disse: «Dovresti andare a trovare i tuoi genitori almeno una volta, piccola Inger!».
Lei ci andò, ma per mettersi in mostra, per far vedere come era diventata distinta; quando giunse all'ingresso del paese, dove le ragazze e i giovanotti erano riuniti a chiacchierare intorno all'abbeveratoio, vide sua madre seduta su una pietra che si riposava, con davanti a sé un fascio di legna raccolta nel bosco. Inger se ne tornò indietro, vergognandosi, così ben vestita, di avere una madre stracciona che andava a raccogliere la legna.
Non le dispiacque affatto essere tornata indietro, era solo irritata.
Passarono poi altri sei mesi.
«Dovresti tornare a casa a visitare i tuoi vecchi genitori, piccola Inger!» le disse la padrona di casa.
«Eccoti un grosso pane bianco che puoi portare per loro; saranno certo contenti di vederti.»
Inger si mise il vestito migliore e le scarpe nuove, poi sollevò un poco la gonna e si incamminò, con attenzione, per non sporcarsi i piedi, e per questo era da lodare. Ma quando arrivò dove il sentiero passava tra la palude e dove c'era acqua e fango per un bel pezzo di strada, gettò il pane sul fango con l'intenzione di camminarci sopra e attraversare il fango senza bagnare le scarpe; ma mentre stava con un piede sul pane e con l'altro sollevato, il pane affondò sempre più, con lei sopra, e così scomparve, rimase solo il fango nero e gorgogliante.
Questa è la storia.
Dove arrivò? Scese dalla donna della palude che fa la birra. La donna della palude è la zia delle fanciulle degli elfi, e questi sono molto noti perché hanno scritto ballate su di loro, e sono stati anche dipinti; della donna della palude invece si sa solo che quando in estate i campi sono pieni di vapore è perché lei sta facendo la birra. Proprio nel luogo dove si fa la birra cadde Inger, e quello non è un posto da starci a lungo. La cloaca in confronto è una luminosa e bellissima stanza.
Ogni vasca puzza tanto da far svenire, e le vasche sono molto vicine tra loro, se poi nel mezzo ci fosse lo spazio dove poter passare, non sarebbe utilizzabile a causa dei fradici rospi e delle grosse bisce che si attorcigliano l'una all'altra. Proprio qui finì la piccola Inger; tutto quel ripugnante groviglio vivente era così gelato che lei rabbrividì e si fece sempre più rigida. Rimase attaccata al pane, che la tirava come un bottone d'ambra tira un filo di paglia.
La donna della palude era a casa, aveva in visita il diavolo e la sua bisnonna, una donna molto vecchia e molto velenosa che non stava mai in ozio: non usciva mai senza avere con sé il lavoro, e lo aveva anche quella volta. Cuciva solette di cuoio da mettere nelle scarpe degli uomini, in modo che non avessero mai pace, tesseva menzogne e lavorava all'uncinetto parole avventate che cadevano sulla terra portando danni e rovina. E con quanto zelo cuciva, tesseva e lavorava all'uncinetto, la vecchia bisnonna!
Vide Inger e si mise l'occhialino davanti agli occhi per guardarla meglio. «È una ragazza che ha attitudine!» disse. «Vorrei averla come ricordo di questa visita! Potrebbe essere messa come statua nell'ingresso del mio pronipote!» Così l'ottenne. Inger arrivò all'inferno. La gente non ci arriva sempre dritta dritta, si possono anche percorrere strade traverse, quando si ha l'attitudine.

Era un ingresso senza fine; venivano le vertigini sia a guardare avanti che a guardare indietro; lì si trovava una schiera di persone sofferenti in attesa che la porta della Grazia venisse aperta: ma avrebbero aspettato a lungo! Giganteschi ragni, grossi e barcollanti, tessevano da millenni sopra i loro piedi, e la tela li stringeva come stivaletti e penetrava nella carne come una catena di rame, inoltre c'era un'eterna inquietudine in ogni anima, un'inquietudine piena di tormento. C'era l'avaro che aveva dimenticato la chiave della cassaforte, e sapeva che era rimasta dentro la cassaforte stessa. Sarebbe lungo nominare tutti i tipi di sofferenze e di tormenti che venivano patiti. Inger visse il suo tormento nello stare dritta come una statua, e le sembrava di essere fissata al pane.
"Questo succede a chi vuol avere i piedi puliti!" disse a se stessa. "Guarda come tutti mi osservano!" e infatti tutti la guardavano. I loro cattivi desideri venivano espressi con gli occhi, e venivano letti sulle labbra, senza che venisse emesso alcun suono; era una cosa terribile.
"Dev'essere un piacere guardarmi!" pensò la piccola Inger "ho un bel viso e dei bei vestiti!" e ruotò gli occhi, dato che il collo era ormai rigido.
Oh, come s'era conciata nella birreria della donna della palude! Non l'aveva notato! I vestiti erano come coperti da un'unica grande macchia unta, e da ogni piega della gonna si affacciava un rospo, che guaiva come un cagnolino asmatico. Era proprio una cosa imbarazzante! "Ma anche gli altri che si trovano qui hanno un aspetto terribile!" si consolò.
La cosa peggiore per lei era però la fame che sentiva. Ma non poteva dunque piegarsi per prendere un pezzetto del pane su cui si trovava? No! La schiena era rigida, e lo erano anche le braccia e le mani; tutto il corpo era come una statua di pietra. Poteva solo girare gli occhi, e li girava del tutto, così da vedere anche dietro, e era proprio una brutta vista! Poi arrivarono le mosche; le strisciarono sugli occhi, avanti e indietro, e lei sbatté le palpebre, ma le mosche non se ne andarono, non potevano perché le loro ali erano state strappate, erano diventate animaletti striscianti. Era un vero tormento, e poi quella fame; alla fine le sembrò che il suo intestino divorasse se stesso e si sentì così vuota, terribilmente vuota. "Se dura ancora a lungo, non lo sopporterò" disse, ma dovette sopportarlo, e le cose non cambiarono.
Allora le cadde una lacrima ardente sulla testa, le scivolò lungo il viso e il petto fino a raggiungere il pane, poi ne cadde un'altra, e molte ancora.
Chi piangeva per la piccola Inger? Aveva una madre sulla terra. Le lacrime di dolore che una madre piange per il proprio figlio arrivano dappertutto, ma non aiutano, bruciano e rendono il tormento ancora più grande. E poi quella insopportabile fame, e non poter arrivare al pane che calpestava coi piedi! Alla fine, ebbe la sensazione di aver consumato tutto quello che era in lei, era come una canna cava e sottile in cui rimbombava ogni suono, poteva sentire chiaramente dalla terra tutto quel che la riguardava, e erano solo parole cattive e severe quelle che sentiva. Sua madre piangeva molto e era addolorata, ma diceva anche:
«La superbia fa cadere! E stata la tua disgrazia, Inger! Come hai addolorato tua madre!».
Sua madre e tutti gli altri lassù sapevano del suo peccato, sapevano che aveva calpestato il pane e era affondata. L'aveva raccontato il vaccaro perché l'aveva visto personalmente dalla collina.
«Come hai addolorato tua madre, Inger!» disse la madre «già, ma me l'aspettavo!»
"Se solo non fossi mai nata!" pensò Inger "sarebbe stato molto meglio! Adesso non serve a nulla che mia madre pianga."
Sentì anche che cosa dicevano i suoi padroni, quella brava gente che era stata per lei come una nuova famiglia. «Era una bambina peccatrice!» dissero «non ha rispettato i doni del Signore, ma li ha calpestati: la porta della Grazia non verrà forse mai aperta per lei.»
"Avreste dovuto castigarmi di più!" pensò Inger "togliermi i grilli dalla testa, se ne avevo!"
Sentì che veniva scritta una canzone su di lei: "La fanciulla superba che calpestò il pane, per avere le scarpe belle" e che veniva cantata in tutto il paese.
"Che si debbano sentire tante cose su questo, e che si debba soffrire tanto per questo!" pensò Inger "anche gli altri dovrebbero venire puniti per i loro peccati. Certo, così ci sarebbero molte cose da punire. Oh, come mi tormento!"
E la sua anima diventò ancora più rigida del corpo.
"Quaggiù con questa compagnia non si può certo diventare migliori! e non lo voglio neppure! Guarda come mi osservano!"
La sua anima era piena di ira e di cattiveria verso tutti gli uomini.
"Adesso hanno qualcosa di cui parlare, lassù! Oh, come mi tormento!"
E sentì che raccontavano la sua storia ai bambini, i più piccoli la chiamavano "Inger la scellerata": era così cattiva, dicevano, così malvagia, e era giusto che patisse.
C'erano sempre parole dure per lei da parte dei bambini.
Ma un giorno in cui l'ira e la fame le mordevano il corpo ormai vuoto, sentì il suo nome; la sua storia veniva raccontata a una bambina innocente che scoppiò a piangere sentendo la storia della Inger superba e smaniosa di eleganza.
«Non tornerà mai più su?» chiese la bambina. E le fu risposto: «No, non verrà mai più su».
«E se chiedesse perdono e non lo facesse più?»
«Ma non chiederà certo perdono!» dissero.
«Vorrei tanto che lo facesse!» concluse la bambina, inconsolabile. «Darei il mio armadio delle bambole, se lei potesse tornare su. È terribile per la povera Inger!»
Quelle parole toccarono il cuore di Inger e le fecero bene; era la prima volta che qualcuno diceva: "povera Inger!" senza parlare della sua colpa; una bambina innocente aveva pianto e pregato per lei: ne fu così commossa che avrebbe pianto, ma non poteva, e anche questo era un tormento.
Passarono gli anni sulla terra, ma laggiù non ci fu nessun cambiamento: solo sentiva più raramente i suoni di lassù, si parlava sempre meno di lei.
Un giorno sentì un singhiozzo: «Inger! Inger! Come mi hai addolorata. L'avevo detto!». Era sua madre che moriva.
Ogni tanto sentiva il suo nome nominato dai suoi vecchi padroni e le parole più dolci della padrona erano:
«Chissà se ti rivedrò mai, Inger! non si sa mai dove si va a finire!».
Ma Inger sapeva bene che la sua brava padrona non sarebbe mai arrivata dov'era lei.
Così passò dell'altro tempo, lungo e amaro.
Poi Inger sentì di nuovo il suo nome e vide sopra di sé brillare due stelle luminose; erano due dolcissimi occhi che si chiudevano sulla terra. Erano passati tanti anni da quella volta in cui una bambina aveva pianto in modo inconsolabile per la "povera Inger": quella bambina era ora una vecchia che il Signore voleva chiamare a sé; proprio in quel momento, quando i pensieri di tutta la vita si ripresentavano a lei, ricordò di come aveva pianto amaramente da piccola nel sentire la storia di Inger. Quel momento e quell'impressione erano ancora così chiari nella sua mente nell'ora della morte che lei esclamò a voce alta:
«Signore, mio Dio, forse anch'io come Inger ho spesso calpestato i doni della tua benedizione senza pensarci, forse anch'io ho peccato di superbia, ma tu, con la tua grazia, non mi hai lasciato sprofondare, mi hai sostenuto. Non lasciarmi nella mia ultima ora!».
Gli occhi della vecchia si chiusero e quelli dell'anima si aprirono davanti all'ignoto, e poiché Inger era così viva nei suoi ultimi pensieri, potè vederla e vide com'era sprofondata in basso, e a quella vista quell'anima pia scoppiò in lacrime, nel regno dei cieli piangeva come una bambina per la povera Inger.
Quelle lacrime e quelle preghiere risuonarono come un'eco nel corpo vuoto e consumato che racchiudeva l'anima prigioniera; questa venne sopraffatta da tanto inimmaginato amore che veniva dall'alto.
Un angelo del Signore piangeva per lei!
Perché era capitato a lei? L'anima tormentata ripensò a ogni azione compiuta sulla terra e scoppiò a piangere, come Inger non aveva mai potuto fare; la pietà per se stessa ebbe il sopravvento, pensò che la porta della Grazia non si sarebbe mai potuta aprire per lei e proprio mentre nella contrizione lo riconosceva, un raggio di luce brillò nell'abisso, un raggio molto più potente di quelli del sole che sciolgono gli uomini di neve costruiti dai ragazzi nei cortili; allora, molto più in fretta di un fiocco di neve che cade sulla bocca tiepida di un fanciullo e si scioglie in acqua, la figura pietrificata di Inger si dissolse, e un minuscolo uccello si alzò in volo, con lo zigzag del fulmine, verso il mondo degli uomini.
Era però intimorito e impaurito per tutto quello che lo circondava, si vergognava di se stesso e di tutte le creature viventi e si rifugiò immediatamente in un buco che si trovava in un muro diroccato.
Si posò lì e si piegò su se stesso, tremando in tutto il corpo; non riuscì a emettere alcun suono, perché non aveva voce, restò lì a lungo, prima di riuscire a vedere e ammirare con tranquillità tutte le bellezze che c'erano là fuori. Sì, era proprio una meraviglia: l'aria era fresca e mite, la luna splendeva luminosa, gli alberi e i cespugli profumavano, e poi era così bello il luogo dove si trovava e le sue piume erano così pulite e delicate. Come si mostravano belle tutte le cose create nell'amore e nella bellezza! Tutti i pensieri che si trovavano nel petto dell'uccello volevano essere cantati, ma l'uccello non riusciva a farlo, eppure avrebbe cantato così volentieri come fanno in primavera gli usignoli e i cuculi. Il Signore, che sente anche il silenzioso canto di ringraziamento del verme, sentì quell'inno di lode che si alzava in accordi di pensiero, così come il salmo risuonava nel petto di Davide prima di trasformarsi in parole e musica.
Per molte settimane quei canti silenziosi crebbero e s'ingrossarono; ormai dovevano esprimersi, al primo battito d'ala di una buona azione: era indispensabile!
Vennero le feste di Natale. Il contadino eresse vicino al muro un palo e vi legò un fascio di avena piena di chicchi, così che anche gli uccelli del cielo avessero un buon Natale e un buon pranzo in quel giorno di salvezza.
Il sole si alzò la mattina di Natale e illuminò l'avena, così tutti gli uccelli volarono cinguettando intorno al palo del cibo; allora anche dal muro risuonò "cip, cip", quei pensieri silenziosi divennero suono, quel debole cip si trasformò in un inno di gioia, si cominciava a delineare l'immagine di una buona azione, e l'uccello uscì dal suo rifugio.
Nel regno dei cieli sapevano bene chi fosse quell'uccellino.
L'inverno si fece sentire davvero, l'acqua ghiacciò fino in profondità, gli uccelli e gli animali del bosco ebbero difficoltà a trovare cibo.
Quell'uccellino volò lungo la strada maestra e cercò, trovandolo qua e là nelle impronte delle slitte, qualche granello di grano; nei luoghi di sosta trovò briciole di pane, ma ne mangiò una sola e poi chiamò tutti gli altri passeri affamati, affinché potessero trovare qualcosa da mangiare. Volò fino alla città, controllò tutt'intorno, e dove una mano amorosa aveva sparso sul davanzale pane per gli uccelli, ne mangiò un po' e diede tutto il resto agli altri.
Per tutto l'inverno l'uccello raccolse e distribuì così tante briciole di pane che, tutte insieme, pesavano come l'intera pagnotta che la piccola Inger aveva calpestato per non sporcarsi le scarpe; quando l'ultima briciola fu trovata e data via, le ali grigie dell'uccello diventarono bianche e si allargarono.
«Una rondinella marina sta volando sul lago!» gridarono i bambini, vedendo quell'uccello bianco. Si tuffò nel lago, si sollevò nella chiara luce solare e luccicò; fu poi impossibile vedere che fine fece, ma si dice che sia volato fino al sole


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